A cura di Danilo Serra
“… ora, l’uomo ha come proprietà qualcosa di
molto strano, che non si trova in nessun altro degli enti che stanno sotto la
sfera della luna: è la comprensione
intellettuale, nella quale non interviene né un senso, né una mano, né un
braccio, e che è paragonabile alla comprensione
divina, che non si serve di un organo.”
(MAIMONIDE,
Guida dei perplessi, PARTE PRIMA,
CAPITOLO I, UTET Libreria, traduzione a cura di Mauro Zonta, p. 91)
“…A
immagine di Dio Egli lo creò.”
La
gente, denunciava a suo tempo il
filosofo Mosè Maiominde (1138-1204), pensa che “immagine” (selem in ebraico) designi la composizione materiale, organica. Essa
crede che Dio sia corpo, figura, configurazione fisica. Per questo la Bibbia dice “Facciamo
l’uomo a Nostra immagine e somiglianza (demut)”. Dio
sembrerebbe essere dotato di una faccia e di una mano. Questo è ciò che il
pensatore ebraico definisce antropomorfismo
puro: conferire al divino caratteristiche e sembianze umane.
L’
“immagine” e la “somiglianza” di cui parla il Testo Sacro, tuttavia, non sono per
Maimonide dei riferimenti fisici, che sembrerebbero porre sullo stesso piano corporeo Dio e l’Uomo, ma degli aspetti
concettuali tesi a legare (e
paragonare) comprensione intellettuale
e comprensione divina. L’uomo è Dio
quando pensa, fatto a sua immagine e
somiglianza. L’Intelletto è ciò che l’Assoluto ha emanato sull’uomo, rendendo
il finito capace di distinguere il bene dal male, il vero dal falso. Chi acquisisce sapienza è degno
di essere immortale. La vera perfezione, la vera felicità fine a sé stessa, è
stata donata dall’Immenso: pensare
significa esistere.
L’uomo
è soprattutto intelletto. Il “sommo
bene” per lui, la sua perfetta felicità,
consiste nell’esercizio attivo del pensiero.
Nella
sua Etica Nicomachea, Aristotele ha saputo
affrontare in modo decisamente sistematico problemi e tematiche fondamentali
della riflessione morale di ogni tempo: il bene per l’uomo, la felicità, la
libertà, la virtù, la politica, il dovere, solo per fare alcuni esempi.
Dalle
pagine aristoteliche (e pro-aristoteliche) emerge con chiarezza la sottile ed
eterna connessione tra felicità ed attività contemplativa. La vita
teorica, lo studio, l’acquisizione del sapere, lo sviluppo del pensiero. Qui, per Aristotele, va ricercata la fonte della
perenne e perentoria felicità umana.
La
pensée et le mouvant fu
il titolo originale di una raccolta, datata 1938, contenente alcuni saggi
decisivi per comprendere la filosofia di Henri Bergson. In essa traspare la visione di un pensiero posto in termini
di percezione dilatata: guardare alla
materia come capacità di guadagnare (astrarre) forme, concetti, idee. Una materialità
viva e non inerte, attraversata incessantemente
dall’inafferrabile movimento (Mouvant).
L’uomo
è veramente tale nel momento in cui si rapporta positivamente con quelli che
sono i suoi pensieri. È solo in quel frangente che si riesce a spezzare la
rigidità del firmamento. È solo in quell’attimo, liberi dalla stabilità fisica, che ci si sente
trasportare verso mete astratte e superiori. Il movimento (Be-wegung) del Pensare, scorrere
naturale di un pensiero
umano libero ed incondizionato, si fa così palese, si presenta, si rivolge
in attesa di essere ascoltato (accudito).
“... non vogliate negar
l'esperienza di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra
semenza fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza.”
(DANTE
ALIGHIERI, Divina Commedia,
Inferno canto XXVI, 116-120)
Queste frasi, indelebili, presenti nel XXVI canto
dell'Inferno della Divina Commedia, sono
pronunciate da Ulisse. Il personaggio
omerico, rivisitato per l’occasione da Dante e condannato nel cerchio dei consiglieri fraudolenti, rivolgendosi ai compagni con i quali s’imbarca, pre-tende
di osare l’ignoto e l’incondizionato in quello che Alighieri definisce il folle volo, sconfinando dai limiti umani
e violando le celesti leggi divine.
Ulisse diviene il simbolo di una folle
ragione umana che si è staccata da Dio. Una ragione che, perdendo il contatto
con la trascendenza, sganciandosi dai
binari della Veritas, ha perduto
tutta la sua essenza spirituale. La follia di Ulisse, però, non è una follia
antireligiosa, tutt’altro. È quel fol
hardment (folle ardire) di cui parlava Brunetto Latini nel suo Trésor. Un volo
irragionevole, un osare l’insuperabile, oltre le colonne d’Ercole, aldilà
della legge scritta, alla ricerca di qualcosa che non era dato conoscere agli
uomini. «Follia, folle
ardimento è dunque un traboccare della magnanimità in eccesso, un esporsi a
grandi, insuperabili pericoli: qualcosa che nasce da virtù ma non è più virtù
perché dalla medietà trapassa in eccesso» (F. Forti).
D’altra parte, separandoci dalla visione
teologico-medioevale radicata nella mente di Dante (il suo mondo è il mondo del Medioevo), la potenza
illimitata dei versi tende a ribadire e porre l’accento su quello che è il primissimo dovere morale dell’Uomo:
muoversi alla conquista, ragionata,
della conoscenza e della virtù, del sapere e della disposizione
d‘animo volta al bene.
Nel “seguir
virtute e canoscenza”, dunque, la dignità
dell’Uomo si eleva. L’Uomo diviene Uomo. L’Uomo diviene sé medesimo.